L’IRA DELL’INVERNO
‘L’inverno non conosce pietà’, disse la Regina Eterna agli astanti che pendevano da ogni sua parola. ‘Nonostante il candore luccicante, è la stagione più tetra e crudele’.
Gli spiriti della foresta si strinsero ulteriormente, le voci unite in una bisbigliante armonia. Condividevano le leggende che avrebbero voluto sentire: il Regno della Corte Ghiacciata; il Lai di Taláthien, che nella sua lunga vita fu martoriato dal dolore più di qualsiasi altro Sylvaneth; magari la straziante storia di Kinnór Radice di Cristallo, che convinse con l’inganno il demone Skarbrand a massacrare la propria orda infernale.
In quella fredda e buia notte, però, la sovrana aveva in mente qualcosa di più oscuro…
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‘Non fare agli alberi di Futilia ciò che non vorresti fosse fatto a te’.
Il Cacciatore non sentiva quell’avvertimento da quando non era che un fanciullo, sussurrato dalla nonna in preda alla senilità o detto con gravità dal padre. Per ventisette anni lo aveva seguito, e in inverno aveva anche rispettato il timore dei compagni verso il bosco che costeggiava la loro dimora. Non aveva mai osato neanche spezzare un ramoscello vicino ai tetri alberi scheletrici, che si ergevano ricurvi come megere gibbose vicino a un focolare.
Si trattava di una paura antica, risalente a ben prima della Tempesta di Azyr. Proveniva da un periodo in cui il genere umano non conosceva nessuna divinità oltre agli spiriti dei luoghi selvaggi, dove la sopravvivenza dei più piccoli dipendeva unicamente dai capricci delle stagioni.
Ora il Cacciatore non aveva scelta se non affrontare quel terrore primordiale. Da ormai due giorni sua figlia era dispersa, e si sentiva nelle ossa dove potesse essere finita. Si era avventurata nel Bosco di Futilia alla ricerca di rose invernali da intrecciare nelle ghirlande, che poi avrebbe barattato al mercato della Veglia Santa.
‘La troverò’, giurò il Cacciatore. ‘Fosse l’ultima cosa che faccio’.
Dunque imbracciò l’ascia e il moschetto e indossò un mantello di pelo di lupo, poi si inoltrò nelle tenebre più oscure. Il Bosco di Futilia spalancò le fauci e lo inghiottì.
Arrancò tra ghiaccio e fango. Ogni passo gli prosciugava le forze e il vento impietoso gli sferzava il viso, sbiancando la pelle rubizza. Ben presto il vecchio boscaiolo non seppe più quanto avesse camminato; gridava il nome della figlia, ma la sua voce si perdeva nell’immensità del paesaggio. Guardandosi alle spalle non vedeva che un tappeto di neve immacolata, nessuna impronta a macchiarlo, neanche le sue.
‘Figlia!’, gridava. ‘Figlia, dove sei?’.
Non giungeva nessuna risposta, solo il vento.
Ogni volta che si fermava per riposare, il vecchio Cacciatore si assicurava di lasciare un tributo agli spiriti della foresta, come indicato dalla tradizione. Raccolse foglie e stecchi, intrecciandoli con cura in forma triangolare e appendendoli ai rami degli alberi scheletrici. Poi si tagliò superficialmente il palmo e bagnò il simulacro con il sangue fresco. Sotto i pendagli pose offerte di carne e bacche, nella speranza di ammansire le creature che, lo sapeva, lo seguivano a ogni passo, invisibili ma sempre presenti.
Da quanto tempo il Cacciatore stesse camminando, solo gli alberi di Futilia lo sapevano, e tacevano. A lungo andare il freddo e il buio cominciarono a farsi sentire. Le mani dell’uomo erano diventate livide e intirizzite. Le gambe gli tremavano e ogni respiro gli si gelava in gola. Piccole luci lo circondavano, danzando al limitare della vista e prendendosi gioco della sua debolezza. Era sempre stato forte, ma ben presto gli arti si fecero pesanti e il petto gli bruciava come marchiato da un ferro ardente. Cadde in ginocchio e si abbandonò al pianto.

Un’aspra risata gli giunse alle orecchie. Le creature dell’inverno sono crudeli, e odiano in particolar modo gli intrusi. Cosa poteva importargli della vita del Cacciatore e della figlia? Appartenevano al vecchio mondo, non al nuovo. La morte degli abitanti delle città e dei pellemolle divertiva i redivivi delle foreste ghiacciate.
La rabbia diede al Cacciatore la forza di rialzarsi in piedi e maledire le creature delle selve profonde.
‘Ho fatto come comandate!’, ruggì. ‘Ho offerto doni di spine e sangue e rami. E ancora mi nascondete mia figlia? Ancora vi prendete gioco di me? Vi maledico, allora. Maledico questa foresta!’.
Detto ciò, estrasse l’ascia e l’affondò nell’albero più vicino. Schegge di corteccia schizzarono ovunque e linfa scura zampillò come sangue. Il Cacciatore colpì più volte. Quando il braccio fu troppo stanco per continuare, prese dallo zaino una borraccia di olio. Cercò la quercia più vecchia nelle vicinanze: un essere fiero, con i rami lunghi e le radici contorte e robuste quanto il Cacciatore. Unse l’albero e gli diede fuoco con la polvere del moschetto. Quando l’antico spirito, che era sopravvissuto incolume al trascorrere dei secoli, fu avvolto dalle fiamme, il Cacciatore si inginocchiò al suo cospetto e pianse.
‘Padre?’.
Anche se era flebile, il Cacciatore riconobbe la voce della figlia e gridò di gioia. Corse verso di lei e, alla luce dell’albero in fiamme, si abbracciarono, entrambi in lacrime per il sollievo.
‘Ho visto il fuoco’, disse. ‘Padre, ero spacciata! Ma la foresta mi ha nutrito: bacche invernali dalla flora, verdemuschio dalle pietre. Mi sono rifugiata nell’incavo proprio di questo albero, che mi ha protetto dal morso dell’inverno. Sapevo che saresti arrivato’.
Con gli occhi velati dalle lacrime il Cacciatore vide le ombre muoversi. Dalle tenebre emersero alcune sagome vicino alle fiamme della quercia morente: gli abitanti di Futilia. Figure oscure, imponenti, con occhi come schegge di ghiaccio e artigli lordi di sangue. Il loro sguardo covava la malvagità più bieca.
Le parole che suo padre gli aveva detto così tanti anni prima riaffiorarono nella memoria. Alla fine non gli aveva dato ascolto.
‘Non fare agli alberi di Futilia ciò che non vorresti fosse fatto a te’.
Stringendosi all’amata figlia, chiuse gli occhi e attese la fine.












